Qui, dal gradino

E' difficile far ritornare le persone in un luogo rimasto chiuso per un po'.
In genere la gente s'abitua.
S'abitua ai gesti quotidiani come alla ragione stessa della propria esistenza, e dentro a quei gesti si agita, a volte si scompone, altre si lascia trasportare.
In molte situazioni nei gesti trova la buona ragione per non fare altro e di quei gesti la sola buona ragione di vita.
Qui la gente passava perché trovava aperto e perché per un certo periodo, qui, aveva ragione di stare perché questo luogo lo sentiva familiare.
Familiare è un aggettivo pericoloso.
La famiglia a volte è pericolosa.
La pericolosità in entrambi i casi riguarda l'ineluttabilità che da essa se ne trae.
Sembra che alcune situazioni debbano per forza essere buone e giuste in quanto tali, la famiglia per esempio.
Ma anche un gesto d'affetto richiesto.
O un atto di carità.
Mentre spesso sono maschere dei loro opposti.
Il non affetto può essere un sincero sentimento, se dichiarato tale; una mancanza di pietismo verso chi è più disagiato, un atto realistico; o il non riconoscimento di un nucleo dove ci si è cascati dentro solo per ragioni ereditarie ma non affettive, un bisogno naturale.
Per questo capisco chi non passa più, adesso.
Capisco la sua libera decisione di andare da un'altra parte, luogo che, nel suo momento di necessità, ha trovato disponibile a sostituire il mio, chiuso per una mia scelta.
Capisco e aspetto.
Osservo, dal mio gradino di fronte l'osteria, la gente passare, intenta a pensare qualcosa che forse mi riguarda ma probabilmente no.
Ciascuno fa e va, sceglie e prova, si volta e si rivolta, cambia e ricomincia.
A ciascuno la possibilità di agire o stare immobile, domandare o ascoltare, pregare o piangere.
Intanto che il tempo batte il tempo.

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